“Sai, mia cara, che non siamo distanti l’uno dall’altra? Se una mattina tu uscissi da Terezin e ti dirigessi a nord e io da Bautzen venissi verso sud, la sera ci si potrebbe incontrare. Andremmo di corsa, no?”
(Jula, Cecoslovacchia)
… e andremmo a nuoto io e te, Maryam: io dalla Sicilia e tu dall’Egitto.
E ti dedicherei un’isola. Proprio qui, nel punto esatto in cui sono sprofondato e non mi hanno più trovato.
Chissà se mi pensi vivo. Sull’acqua non s’incidono le parole che ti avrei riservato.
Chissà come sarebbe stato il nostro quarto figlio.
Eppure voi, potete ancora andare al mare e pensare, sì, pensare che io ci possa galleggiare. Dillo a Mahmoud che il papà vive dentro a una balena e ogni tanto scende nell’isola che non c’è tra Fayoum e Lampedusa. Gli servivano solo braccia un po’ più lunghe per nuotare e un cervello ben più saldo per non sprofondare.
Dillo a Mahmoud che ci ho provato, raccontagli com’era la nostra Damasco… diglielo che prima ero un taxista e conoscevo a menadito Aleppo. Diglielo prima che anche lui mi chiami profugo o deportato. Io avevo un’auto gialla, pulita, con appeso il “rosario” allo specchietto. Portavo turisti, uomini d’affari e signore con i loro familiari.
Dillo a Mahmoud che ci teniamo a esser ricordati come eravamo, come eravamo prima che ci rendessero tutti uguali: eroi, martiri, stranieri, straccioni.
Diglielo che i cimiteri non son fatti sempre di terra, ma anche di onde per chi fugge da una guerra.
Io non so quale di loro, delle persone che ho incontrato sia sprofondata nel Mediterraneo, ma dei tanti so che sicuramente almeno una c’è e Lars chiude questo cerchio di voci con la forza di un volto che svanisce tra i tanti, quel volto che la forbice di Montale non doveva recidere, quel volto che ci interroga seppur sconosciuto:
“Cara mamma, giornalmente leggi con la massima calma della morte di migliaia di persone, cerca di sopportare la mia morte con la medesima calma, io non sono che uno dei tanti.”
(Lars, Danimarca)
da “Perché sian fatte nostre”