Il libro di Ludovica Amat, da poco pubblicato per i tipi di Enrico Damiani Editore, propone tra le sue pagine anche una intervista ad Annalisa Vandelli.
L‘obiettivo de Il trasloco felice. Manuale di sopravvivenza è cercare di far stare bene l’umanità, attraverso la condivisione e il racconto di diverse esperienze di traslochi.
Ma perché cercare di rendere felici le persone parlando di trasloco? Qual è il nesso? L’autrice racconta che il trasloco nella nostra cultura è annoverato come il secondo trauma per gravità dopo il lutto e che appreso ciò, si è stupita di come nessuno ne parli se non da un punto di vista logistico e tecnico.
Il trasloco come rito di passaggio
Essendo un trauma di tale portata ed essendo Ludovica Amat un’esperta empirica, o meglio una traslocatrice seriale, come ama definirsi, ha sentito il bisogno di parlarne non tanto in termini di psicologia, quanto in termini umani, emotivi e sentimentali.
Cos’è veramente un trasloco? “È un rito di passaggio. È la consapevolezza che la sua natura non è intrinsecamente negativa e che quindi possiamo trarne del bene, da qui il titolo di Trasloco Felice.”
Preso nel modo giusto un trasloco può diventare qualcosa di benefico e rinvigorente. È un cambiamento, che può avvenire per motivi positivi o negativi e in quanto cambiamento è il valore che noi gli attribuiamo a condizionarne il potere. Il matrimonio, i compleanni o addirittura momenti come i funerali vengono sempre celebrati, gli viene riconosciuto un grado di importanza, mentre al trasloco no. Eppure è un rito di passaggio che segna le nostre vite, le nostre amicizie, il lavoro e molto spesso anche in positivo, quindi non si capisce perché non venga celebrato, anzi che essere vissuto come un dolore.
Suggerimenti per un trasloco felice
In un trasloco, si guarda agli oggetti di una casa principalmente in due modi: come a qualcosa di gigante, di difficile, che sovrasta e va affrontato, o come a un ambiente romantico che si è costretti a lasciare alle spalle per mai più tornare.
Si, è vero dietro a un trasloco ci sono fatica fisica e mentale, date dal lavoro e dal distacco, non dobbiamo farci dominare da paura e sconforto, bensì regalarci un tempo umano per affrontare la cosa, goderci il cambiamento e farlo nostro.
Ludovica, con la dovuta elasticità, fornisce dei tempi utili per vivere al meglio il cambiamento e dei suggerimenti per un approccio logistico costruttivo e amorevole. In questi momenti si devono scegliere gli oggetti da tenere e da lasciare, ma il vero suggerimento non è tanto quello tecnico, quanto quello di concentrarsi su ciò che è veramente essenziale e rappresenta gli snodi della nostra identità.
Perché Annalisa Vandelli nel libro?
“Ho cercato persone da inserire nel libro che avessero esperienze fuori da comune o che vivessero la casa in modi differenti dalla maggioranza e Annalisa è sicuramente un caso particolare.
Da bambina Annalisa costruiva case sugli alberi e traslocava nelle varie costruzioni senza mai portare con se oggetti personali, ma solamente strumenti per osservare il cielo e libri per leggere. Lei nella sua infanzia ha effettuato molti traslochi, portando solo se stessa e tornando poi ogni volta a casa, esattamente come oggi fa per lavoro.
Annalisa cambia casa continuamente per via del suo lavoro. Ne avrà cambiate un migliaio in giro per il mondo e quella casa dove ogni volta torna è come un nido, è come un rientro nel posto sicuro.
Ma volevo sapere di più e capire l’idea di casa di chi fa viaggi lunghi mesi per lavoro. E ho capito che i suoi non sono viaggi, quando viaggi osservi il posto, le persone, i colori e le abitudini, lei fa veri e propri traslochi. Va a vivere in quei posti, stringe amicizie con le persone, si veste con i loro colori e fa sue le loro abitudini.
Nei posti in cui va a vivere ospitata, non sceglie nulla, mobili, quadri o altro, lei porta solo se stessa proprio come sulle sue case sull’albero e nonostante così poco si sente a casa. Quindi casa non è solo un insieme di oggetti, ma di emozioni, energie e sensazioni che ci fanno sentire accolti e parte della realtà.”
(Linda Compagnoni)